Il corteo di testa, pur includendo una molteplicità di pratiche e di sensibilità, non esaurisce le posizioni di movimento: in questo articolo del 9 maggio, alcune brevi ma incisive critiche da parte di alcun* compagn*.
Da sempre, e soprattutto durante i cosiddetti “movimenti sociali”, alcune organizzazioni politiche (partiti, sindacati, ecc.) tentano di prendere il potere sulle lotte. Sempre le stesse pratiche, che si ripetono uguali ogni volta per prendere il comando dei rivoltosi, deturnare le rivolte e integrarle a un programma politico, per poi farle fruttare in cabina elettorale o in rapporti di forza privati e finalizzati a interessi specifici. Nelle assemblee ci si infiltra, nei cortei si prende la testa, nella repressione ci si dissocia. È un mestiere: si chiama politica.
Storicamente, il vero simbolo di questa presa di potere sulle rivolte è il quadro sindacale in testa al corteo. È per questo che, nel corso dei decenni, la sfida per tutte e tutti quelli che lottano (liceali, sans-papiers, disoccupati, studenti, ecc.) è spesso stata quella di prendere la testa della manifestazione per opporsi a questa restituzione al sindacato. Per gli altri incontrollabili, invece, si trattava spesso di esprimersi in coda al corteo. Queste due pratiche non contraddittorie costituivano una forma di autonomia contro partiti e sindacati, e hanno permesso negli anni di debordare attivamente il mantenimento dell’ordine dei Servizi d’Ordine in testa o in coda al corteo: disordini, sfasci, biforcazioni delle manifestazioni, cortei selvaggi, diverse forme di occupazione e di conflittualità con i responsabili della manifestazione, e altrettante possibilità per trasformare le classiche sfilate domenicali in pantofole — nelle quali la vitalità degli uni serve ad appoggiare i negoziati degli altri — in momenti sovversivi.
Corteo di testa is the new CGT?
Dalla Loi Travail in poi, una nuova forma di quadro prende la testa della manifestazione, relegando tutte e tutti quelli che lottano dietro la manifestazione, insieme al “paté di testa” sindacale. È ordinato, rituale, specializzato, professionale, spettacolare, mantiene l’ordine a modo suo, sfila e posa davanti alle telecamere alla maniera dei quadri di testa sindacali. Ovviamente, con delle differenze: l’offerta di uniformi North Face e di slogan rap su sfondo fumogeno si adegua certamente meglio alla domanda estetica dell’epoca rispetto alla caro vecchio faccione di Arlette Laguiller e al baffo di Philippe Martinez.
Ma, diciamocelo, il “corteo di testa” è tutto il contrario di un debordamento o di una rivolta.
Preferire il “debordare che manifesta alla manifestazione che deborda” vuol dire militarizzarlo. Vuol dire preferire l’ordine e il potere al disordine ingovernabile.
Rivòltati
Ingestita e ingestibile, la rivolta non ha uniformi o spazi definiti in un corteo, né tantomeno fotografi autorizzati. Nella rivolta ogni identità è abolita, e assume forme imprevedibili, a volte sconosciute, spesso fuori da ogni norma. Non si può prevedere quando avverrà, né chi ne farà parte, né tantomeno il suo divenire. La rivolta accoglie chi la comprende, qualsiasi siano le ragioni che lo spinge a farne parte. In una rivolta non ci sono più lavoratori, disoccupati, studenti, giovani, vecchi, sfasciatori, pacifisti, K-way neri e Casacche rosse. Non ci sono che rivoltosi. Il vanaglorioso “corteo di testa” si è oramai costituito a norma di una radicalità superficiale a scapito dell’inventiva, dell’effervescenza e della gioia rivoltosa. È proprio questa mancanza che lo priva di ogni portata sovversiva, e lo porta a opporsi a una sauvagerie e a un’incontrollabilità che dunque non vi trovano alcuno spazio di espressione.
Né casacche rosse né K-way neri,
Nessun “il mondo o nulla”,
Siamo selvaggi!
Innominabili incontrollabili