Alcune riflessioni sul corteo in memoria di Sandrine Bakayoko
La nebbia che abbiamo visto sabato non avvolgeva solo il tratto di strada che separa Conetta e Agna: oltre a essere una caratteristica del paesaggio, essa pervade le coscienze dei cittadini così come i corpi dei profughi, invisibili dietro le sbarre dell’ex caserma di Cona, dove sono stipati oltre 1300 sans papier.
Al nostro arrivo, oltre ai 150 migranti e alla cinquantina di solidali, il consueto spettacolo del comitato di benvenuto: una decina di “arrabbiati” e “preoccupati”, triste espressione del razzismo fanatista e xenofobo che ben conosciamo.
Nonostante la nebbia che avvolge la pianura,le strade e i cuori, non ci è stato difficile scorgere i loro volti e gli striscioni inneggianti all’odio sociale: Il sempreverde “Italia agli italiani”,“Pretendiamo + sicurezza, – profughi”… preso atto della freschezza dei contenuti espressi, il corteo ha ritenuto opportuno destinarli al miglior uso possibile: lustrarsi le scarpe.
L’obiettivo della manifestazione non erano gli abitanti di Cona e Conetta, come è stato reso chiaro fin da subito dai profughi stessi, ma la logica capitalista che fa del migrante una merce da gestire, trasportare e allocare all’occorrenza (meglio se lontano dalla vista dei cittadini); nel peggiore dei casi, una merce da imprigionare o rimpatriare. Gli slogan che abbiamo sentito e urlato lungo il “miglio grigio” che separa Conetta da Agna chiedevano “rispetto, diritti, dignità” ma anche “il rilascio immediato di un permesso di soggiorno umanitario a tutti i migranti”; e non sono ovviamente mancate parole di sincera stima alle forze dell’ordine che presidiavano il corteo, come “fuck the police” e “tout le monde déteste la police”.
Sciolto il presidio, ci siamo incamminati. Un’altra passeggiata nella nebbia più fitta, dove questa volta le uniche certezze visibili erano le volanti, accorse premurosamente ad assicurarsi che giungessimo sani e salvi alle nostre vetture – assistendo persino, con incrollabile spirito voyeuristico, alla pisciata di qualche compagno.
Sulla via del ritorno, ripensavamo a quanto ci avevano detto i profughi sulle loro condizioni: c’è chi dorme accampato in tenda per mancanza di spazi, chi è malato da settimane e non riceve assistenza medica… c’è chi invece, come Sandrine, viene lasciata morire in un cesso a 25 anni. Eppure, pensavamo, siamo più che mai nella necessità di considerare la situazione nel suo insieme, e non soltanto nelle singole circostanze, per quanto gravi e disumane. Dai naufragi nel mar Mediterraneo (che solo nel 2016 si è portato giù oltre 4000 persone) allo sbarco, dallo smistamento d’ufficio senza possibilità di appello all’accoglienza nelle cooperative umanitarie – spesso rivolte unicamente al potenziale guadagno offerto da questo mercato – per finire con la degradante realtà dell’intolleranza, alimentata dalle destre razziste, e dalla gestione unilaterale di ciòche i prefetti chiamano “emergenza profughi”.
Il problema ovviamente non è il profugo in sé, ma un sistema globale di sfruttamento il cui mezzo è la guerra e il cui unico fine è il profitto a discapito di milioni di persone costrette a fuggire.
Al nostro ritorno, gli striscioni erano stati nuovamente tesi tra le fronde degli alberi spogli, perfettamente leggibili e anzi ancora più in tono con lo strato di merda che li inzaccherava. A completare il quadretto, quattro volanti a garantire la libertà d’espressione dei poveri razzisti. I fasci c’erano, più o meno assortiti e perfettamente a loro agio tra polizia, carabinieri, protezione civile e digos; e sempre troppi. I compagni e le compagne, invece, forse troppo pochi per una giornata che credevamo più sentita. È stata comunque per noi un’occasione di lotta, di incontro e di dialogo con chi, come noi, combatte per un’alternativa all’esistente.
Sabato abbiamo percorso un miglio grigio nella nebbia: solo attraversandola tutta potremo rivedere il sole.