1º maggio: verso l’infinito e oltre

Un altro approfondimento sulla primavera francese da Paris Luttes. In questo articolo, alcune riflessioni sulla manifestazione del primo maggio e sulle pratiche del corteo di testa, verso una reale condivisione del comune.

5 maggio 2018

Questo non è un testo descrittivo degli episodi che hanno ostacolato il primo maggio parigino. Altri lo faranno meglio di noi. Non riteniamo di interesse primario una descrizione metodica. Vorremmo piuttosto mettere in chiaro che la manifestazione del primo maggio non è stata interessante tanto per i suoi episodi quanto per il loro aspetto diffuso. 

In effetti, non si contano i cortei selvaggi (ossia fuori dai dispositivi inizialmente previsti dalla prefettura) che hanno attraversato la giornata. È in questo senso che si intuisce il nostro successo. La manifestazione del primo maggio, altrimenti ridotta a un meeting della CGT  e vero simbolo dei cortei mortiferi, è stata destituita, debordando ovunque. 

Forse non si può nemmeno più parlare di corteo di testa, quanto piuttosto di una manifestazione in piena regola, che rifiuta di sfilare a schiere serrate insieme al servizio d’ordine dei sindacati sul percorso stabilito dalla prefettura.  

Questa sorta di contro-manifestazione è ciò che la prefettura, incapace di qualificarla o di comprenderla, chiama “i 14500 manifestanti ai margini”.

Noi invece preferiamo chiamarla “dimostrazione di potenza”.

Siamo arrivati al punto in cui è impossibile sapere chi è chi. Il fantasma del “soggetto-sfasciatore” costruito dallo Stato crolla in mille pezzi. Allo stesso modo, la mitologia dell’“attaccare non fa massa” è stata gettata nell’immondezzaio della Storia.

Dunque non è senza un certo sentimento di forza che ritorniamo su questa manifestazione multipla del primo maggio. Raramente abbiamo visto un dispositivo poliziesco del genere aggirato in questo modo, così tante stade di Parigi rovesciate in un solo giorno. Potremmo anche parlare di una certa forma di vittoria in tutto questo debordare, per quanto gli apostoli della disfatta non facciano che parlare delle violenze sbirresche e del numero di interrogati. 

Finiamola di accontentarci di questa posa debole e martellante, che ci assegna sistematicamente al ruolo dei perdenti. Non parliamo più di repressione “ingiusta” e “illegittima” di uno Stato che se la prende con noi quando in fondo la nostra non è che una forma di violenza “simbolica”.

È tempo di ribaltare questa tendenza. È tempo di far sì che la nostra forza non sia più simbolica, ma abbia un impatto reale sul corso delle cose. È tempo di allontanarsi dalla favola del buon-piccolo-gauchista-debole-e-innocente che si fa picchiare dallo Stato. Pensare che da questo tipo di ragionamento possa nascere una potenza rivoluzionaria è una speranza vana. Non farà che produrre l’indignazione online, qualche notifica, un clic, forse una petizione: sicuramente non più forza.

Non vogliamo negare la repressione. Proponiamo invece di accettarla. Non si tratta di indignarsi, ma di prenderne atto e di adattarvi le nostre pratiche. Organizzarci di conseguenza.

Questo organizzarci non deve fermarsi alle parole. Significa prendersi cura degli amici fuori dalla garde à vue, sostenerli in tribunale ma anche dopo, quando potranno uscire. Significa prendersi una sera libera per loro se sono ai domiciliari o con obbligo di firma, invece di andare a divertirsi in discoteca e preservare l’isolamento. Il comunismo del quotidiano non si limita ai momenti di festa. Deve esprimersi anche e soprattutto nei casini, nei momenti in cui la società fa di tutto per distruggerci e isolarci. La vera amicizia ci deve avvicinare. Organizzarsi è anche questo: prendersi cura l’un l’altra nei momenti di debolezza individuale per essere più forti collettivamente. Per chi poi non avesse amici in galera e magari qualche spicciolo di troppo (fico!), il sostegno effettivo può passare per un finanziamento al Legal Team – che non sarà capace di fare tutto da solo – a questo link: https://www.cotizup.com/stop-repression.  

È allarmante, di fronte a una repressione del genere, che molti siano usciti senza un minimo di materiale di autodifesa dalla polizia e dai suoi gas lacrimogeni. Una mascherina da vernice e un paio di occhiali da bricolage sarebbero bastati a evitare certe nasse, come quella di fianco al McDonald’s bruciato. Smettiamola di attardarci su ciò che non dipende da noi o rispetto al quale non possiamo fare nulla nell’immediato. Questo atteggiamento non fa altro che produrre indignazione costante e posture di rivendicazione — in una parola: l’indebolimento e la dipendenza dalle istituzioni. Se l’indignazione può essere utilizzata dalle famiglie e dai parenti delle vittime per ragioni evidentemente strategiche ed emotive, non può tuttavia costituire una parola d’ordine rivoluzionaria: ci condurrebbe alla sconfitta.

Allo stesso mondo, è inutile indignarsi perché i sindacati hanno subito accettato di deviare il percorso della manifestazione. Questo ci riporta a parlare della nostra debolezza e dipendenza nei loro confronti, delle speranze che tutto sommato riponiamo in loro invece di contare maggiormente sulla nostra forza. E quando parliamo di forza, non parliamo di un “black bloc”, di “radicali”, di “ultrasinistra” o di altre identità prefabbricate; parliamo di tutte e tutti quelli che hanno deciso di non seguire più un percorso già tracciato, che sia al lavoro, nella vita quotidiana, nella sfera domestica o in una manifestazione. È altrettanto possibile che portino un k-way, una casacca, entrambe o nessuna delle due.

Per concludere: che insegnamenti trarre da questa manifestazione?

  1. Sì, è possibile aggirare il dispositivo poliziesco, per grande che sia, ma questo significa organizzarsi di conseguenza. Cosa che hanno saputo fare le compagne e i compagni venuti da tutta la Francia e da ogni dove.
  2. Una volta ripartiti questi ultimi, qual è il prossimo passo? Difficile a dirsi, per il momento. Il tentativo di far esplodere la conflittualità della manifestazione è riuscito. Continuiamo così.
  3. Se pure la giornata del primo maggio è stata intensa e resterà impressa nella nostra memoria, è anche vero che non ha portato grandi sorprese. Ci ha dimostrato che l’autonomia è sempre capace di ciò che ancora oggi è il suo collante: le sommosse.
  4. È evidente che non basta. Chiunque abbia bazzicato un po’ le occupazioni universitarie in Île-de-France giunge alle stesse conclusioni. Non c’è attualmente alcun progetto positivo concreto nell’autonomia, se non delle premesse. Tutti preferiscono “far cacao”, che potremmo sintetizzare nella formula “alcol droga e insurrezione”. È terribile vedere fino a che punto, una volta liberati degli spazi e delle temporalità, queste tre cose ci riportino tristemente al giorno d’oggi. Vi si scorge la stessa miseria esistenziale e affettiva, gli stessi dispositivi che ci distruggono dolcemente.
  5. È quindi urgente partecipare positivamente alle nostre azioni e uscire dal nichilismo circostante — che sia il nostro o quello di quest’epoca.

Per chi non ne fosse al corrente, la sinistra continua a decomporsi e a scaricarsi. Cosa fare di loro?

È urgente proporre qualcosa di non-nichilista. Se vogliamo evitarci l’ennesima generazione sacrificata sull’altare del liberalismo esistenziale, dell’eterna ricomposizione dei gruppi, della miseria affettiva e dell’inerzia generale, bisogna rinnovarsi, studiare, sperimentare la comunità, generalizzare la cura, inventarsi nuove forme, mettersi a nudo, uscire dall’impasse politica contemporanea, dall’attivismo fine a se stesso. Bisogna chiedersi cosa ci accomuna, all’infuori della nostra rabbia per come va il mondo.

Far coagulare la rabbia va bene, ma materializzarla in pratiche e parole d’ordine che non abbiano solo valenze negative darebbe loro una forza incredibilmente superiore. 

Des voies communes

 


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