Riflessioni sugli sfasci in manifestazione e sugli avvenimenti del 1º maggio

Continuano gli approfondimenti sulla primavera francese. In questo articolo, alcune riflessioni sulla pratica della casse e del black bloc.

 

da  Paris Luttes, 2 maggio 2018

 

Ci siamo: tutti i media ne parlano. Le politiche di destra li condannano fermamente, auspicando una maggiore repressione; le politiche di sinistra tentano di far passare i casseur per dei finti manifestanti infiltrati per screditare il movimento sociale contro Macron. 

Gli avvenimenti del primo maggio a Parigi sono sulla prima pagina di tutti i giornali. BMF TV e compagnia cantante sono ormai un disco rotto, e tutti hanno come al solito diritto all’abituale logorrea sui cattivi-teppisti-vestiti-di-nero-ma-chi-sono-costoro?

Quanto accaduto il primo maggio a Parigi ci dà l’occasione per qualche riflessione sulla pratica dello sfascio, sul suo trattamento politico e mediatico, così come sul dibattito strategico che necessariamente apre.

Cominciamo dall’inizio. Cos’è la casse e che cos’è un black bloc?

 

Cos’è la casse

La casse (sfascio) è una pratica orientata alla distruzione di beni materiali specifici, identificati come nemici. Si rivolge dunque ai simboli dello stato (commissariati di polizia, gendarmerie, veicoli delle forze dell’ordine), ai simboli del capitalismo (banche, compagnie assicurative, agenzie immobiliari, catene di fast-food, spazi espositivi, boutique di lusso), o ancora ai simboli dell’arroganza borghese (come auto e hotel di lusso). La casse è una pratica, non un fine. Gli sfasciatori non distruggono per distruggere, spinti da un malsano piacere per la distruzione degli oggetti; e, se pure a volte questa tendenza esiste, è da considerarsi assolutamente minoritaria. Questo modo di agire si chiama “propaganda col fatto”. È un metodo di ispirazione anarchica che cerca di passare dalle affermazioni e dalle posizioni di principio all’azione. Questo fa della casse un metodo illegale e accettato in quanto tale. L’idea che vi sta dietro è infatti l’accettazione della conflittualità con lo Stato e il capitale, ma anche l’infrazione dei limiti stabiliti e autorizzati da questi ultimi.

Cos’è un black bloc

Un black bloc è un insieme di persone vestite di nero, A volto coperto in modo da non essere riconoscibili. Le persone che partecipano a un black bloc hanno posizioni ideologiche differenti. Alcuni appartengono a partiti politici, altri no; alcuni fanno parte di un sindacato, altri no. Contrariamente a quanto affermano molti politici e media, i black bloc non sono “anarchici”, per quanto ovviamente vi si possano trovare anche militanti anarchici.

I Black bloc nascono nel corso di una manifestazione e si dissolvono una volta terminata. Non esiste una struttura fissa. Il black bloc è dunque una tattica, e non un gruppo militante. La tattica del black bloc permette infatti alle persone che ne fanno parte di rimanere anonime e di non farsi identificare dalla polizia, dalle telecamere di video-sorveglianza o, ancora, dalle foto pubblicate sui social network. 

La tattica del black bloc lascia libertà d’iniziativa ai manifestanti che ne fanno parte. Questi, anonimamente, possono distruggere vetrine o distributori automatici, oppure difendersi dalle aggressioni della polizia minimizzando il rischio di essere arrestati e identificati. 

Si sente spesso dire nei confronti dei black bloc che “la gente a volto coperto non ha il coraggio delle proprie azioni”. È una critica piuttosto frequente. A questa critica, rispondiamo che la politica non è un gioco, e quello contro lo Stato non è uno scontro privo di rischi — tanto più dal momento che ha come obiettivo il crollo del capitalismo. È dunque evidente che mettersi in pericolo in nome di un assurdo principio di “coraggio” nella lotta non ha alcun senso: i rischi che si corrono sono enormi, sia penalmente che sul piano della militanza. Accettare il conflitto con lo Stato e il capitale a volto scoperto e — perché no? — muniti di documento d’identità, è il miglior modo di finire in carcere.

 

Il nemico interno

Riguardo agli avvenimenti del primo maggio a Parigi, politici e media ci fanno la ramanzina del nemico interno che vuole distruggere la democrazia e non rispetta il patto repubblicano. Un nemico interno che bisogna ovviamente distinguere dagli altri manifestanti – pacifici e dunque legittimati — che accettano il patto repubblicano e fanno semplicemente valere il loro diritto fondamentale di manifestare — diritto riconosciuto dallo Stato e accettato dalla borghesia. 

Ci sarebbero dunque quelli che combattono le politiche di governo senza per questo rimettere in causa la legittimità dello Stato a condurre politiche favorevoli al capitalismo (quelli con cui il governo deve far finta di negoziare per poter “meglio illustrare le proprie riforme”), e quelli che invece lottano non solo contro le politiche condotte da Macron, ma più in generale contro il sistema capitalistico, contro il governo, contro il potere al servizio delle classi dominanti — che devono la loro posizione a risorse quali l’imperialismo, la repressione e lo sfruttamento.

È quasi comico osservare il doppio gioco dei principali media. La mattina di martedì primo maggio — dunque prima della manifestazione parigina — BMF TV parlava di una “dimostrazione di debolezza” da parte dei sindacati, nel tentativo di delegittimare agli occhi dell’opinione pubblica le forze che tentano di lottare contro le politiche di Macron.

Discorso totalmente capovolto qualche ora più tardi: questa volta c’erano da una parte i “manifestanti buoni” della CGT e degli altri sindacati che manifestavano pacificamente com’è loro diritto, e dall’altra i “manifestanti cattivi”, sfasciatori radicali senza alcuna legittimità.

Ma cose ne è appunto di questa legittimità? Come ci si pone di fronte al “patto repubblicano” che ci dà diritto a manifestare?

Vi sono qui due legittimità che vanno studiate separatamente. Vi è, in primo luogo, la legittimità nei confronti dei nemici che combattiamo, e in secondo luogo la legittimità nei confronti dei nostri potenziali alleati.

 

Stato, Governo, Repubblica, Capitale

Il governo e i media, trattando gli sfasciatori come nemici interni e fuori dal patto repubblicano, non fanno altro che tentare di distruggere la legittimità di chi lotta contro il capitalismo e la forma attuale dello stato — vicini in questo alla maggioranza della popolazione. 

In questo modo, intendono affermare la legittimità dello Stato così come del governo eletto; la legittimità della Repubblica, in quanto patto sociale tra popolo e Stato; la legittimità del capitalismo, che non può essere messo in discussione in quanto sistema giusto. 

Tutte queste idee vanno combattute.

Lo Stato, nella sua forma attuale, è un organo profondamente contro-rivoluzionario a servizio di una classe sociale, la borghesia.

Il governo, nel fare gli interessi dei più ricchi, garantisce in toto questa funzione dello Stato.

La Repubblica non è che la forma che lo Stato assume, ma la sua storia è quella del colonialismo, del massacro dei comunardi, dell’imperialismo.

Infine, il capitalismo, per come è stato analizzato da Marx, è un modo di organizzazione della produzione nel quale i mezzi appartengono a privati il cui interesse diretto è la ricerca del profitto. Nel sistema capitalista, chi non dispone dei mezzi di produzione vende la propria forza-lavoro a chi li detiene, ossia il borghese. Il borghese impiega dunque il lavoratore, che produce merce materiale e immateriale. Questa merce viene poi venduta dal borghese, che remunera il lavoratore al di sotto del prezzo di vendita della merce che lui stesso ha prodotto. Se dunque è il lavoratore colui che produce e permette alla società di funzionare, è invece il borghese, per il semplice fatto di possedere i mezzi di produzione, che determina il modo in cui viene organizzata la produzione e che detiene il plus-valore prodotto dal lavoratore. Questo sistema, intrinsecamente ingiusto poiché basato unicamente sulla disuguaglianza di capitale, è il sistema che regola la produzione nella maggior parte del mondo.

Per continuare a farlo, il sistema capitalista ha bisogno di uno Stato al suo servizio. Questo Stato, attraverso la repressione poliziesca e giudiziaria nei confronti dei lavoratori che tentano di ribellarsi al sistema capitalista, è messo al servizio del capitalismo, e quindi di un ordine profondamente ingiusto. La violenza repressiva è oggi un principio statale, perché lo Stato si è auto-concesso il monopolio della violenza fisica legittima attraverso il mito del contratto sociale.

 

La violenza del capitalismo

Oltre alla violenza repressiva rivolta verso chi lotta contro il capitalismo, il sistema capitalistico si accompagna necessariamente a tutto un insieme di fenomeni di violenza estrema che distruggono vite.

La violenza del capitalismo è fatta di licenziamenti abusivi che lasciano famiglie intere per strada; di sfratti alle 6 del mattino nei confronti di famiglie che non riescono più a pagare l’affitto; di studenti costretti a rinunciare a una laurea perché non riescono più a coniugare studio e lavoro.

La violenza del capitalismo è fatta di persone senza documenti che fanno lavori di merda per un salario da miseria e vivono nella perenne paura di essere rimpatriati nel paese da cui scappano; di donne due volte più sfruttate degli uomini, di madri single costrette a due lavori precari per sovvenire ai bisogni dei figli. 

È quando ti negano un affitto o un lavoro perché sei nero o arabo.

La violenza del capitalismo è milioni di morti ogni anno a causa di malattie di cui conosciamo la cura, e che non esistono più nei paesi “ricchi”. La violenza del capitalismo è la guerra per le materie prime condotta ai quattro angoli del mondo dalle grandi potenze. La violenza del capitalismo è negli impiegati che si schiantano o si suicidano a causa delle pressioni delle loro gerarchie.

La violenza del capitalismo è due milioni di morti all’anno per incidenti sul lavoro. È vedere il vicino, figlio di un Amministratore Delegato, andare in vacanza in un hotel di lusso, mentre tu passi l’estate a sgobbare sperando di non essere più in rosso un giorno o l’altro. La violenza del capitalismo è vedere i figli dei ricchi frequentare le Scuole di Commercio da €8000 l’anno, dove si riproduce l’élite economica, mentre i figli dei poveri entrano nel mondo del lavoro a 17 anni o prima, incatenati a miseri lavori precari.

Questa è la violenza subìta dalla maggior parte dell’umanità, in un modo o nell’altro. Una violenza che deriva in primo luogo da un sistema di produzione basato sulla disuguaglianza di capitale; un sistema economico che crea di fatto delle disuguaglianze a catena.

 

Altre legittimità

Quando gli sfasciatori attaccano un McDonald’s, simbolo (se ce n’è uno) del sistema capitalista, rispondono legittimamente e simbolicamente a tutte le violenze di questo capitalismo che distrugge la vita, ma soprattutto compiono un atto di lotta che mira ad accettare la conflittualità con lo Stato e il capitale. Quando si è determinati a lottare contro il capitalismo per sostituirgli un sistema più giusto, nel quale ogni individuo possa trovare il suo posto e nel quale le violenze sopracitate non esistano più, è chiaramente necessario accettare di non essere legittimati agli occhi dello Stato, dei media e della borghesia.

Non possiamo chiedere a uno Stato che stiamo attaccando di riconoscerci in quanto legittimi, né possiamo considerare legittime e degne di rispetto tutte le leggi dello Stato che stiamo affrontando. D’altronde, i pochi diritti che oggi abbiamo e che ci permettono di vivere in condizioni migliori rispetto a 100 anni fa, li abbiamo ottenuti tramite la lotta — e soprattutto attraverso metodi illegali e violenti.

I diritti non sono regali dello Stato, ma acquisizioni di lotta che hanno permesso ai lavoratori di non morire più di fame nelle bidonville lavorando 14 ore al giorno senza ferie.  Sia chiaro, la situazione oggi non è delle migliori. Le disuguaglianze che si generano a partire dal possesso o meno di capitale continuano a esistere, così come la violenza che ne deriva. Bisogna dunque attaccare il problema alla radice, ossia attaccare il capitalismo in quanto sistema di organizzazione della produzione. 

In questo contesto, la tattica del Black bloc e le azioni di sfascio sono assolutamente legittime per chi lotta contro lo Stato e il capitalismo. Queste azioni, contrariamente a quanto dicono i media e i politici, non costituiscono una violenza orribile da denunciare a ogni costo: sono semplicemente risposte simboliche a una violenza sociale reale. 

Se dunque i movimenti rivoluzionari in rotta col capitalismo non devono in alcun caso cercare di legittimarsi agli occhi delle forze che combattono, è al contrario necessario ricercarla nei potenziali alleati di cui hanno bisogno per far crollare il capitalismo. Stiamo parlando della maggioranza della popolazione, di tutte e tutti quelli che subiscono quotidianamente le violenze del capitalismo ma che ancora non sono in lotta, o che al contrario non hanno più la forza di lottare.

Dobbiamo guadagnare legittimità agli occhi di queste persone. Non sono nostri nemici: sono infatti i lavoratori, i disoccupati, la maggior parte degli studenti e i pensionati a lottare, anche nell’illegalità. È dunque assolutamente necessario avvicinare queste persone alla lotta rivoluzionaria, se vogliamo un giorno essere nella condizione di rovesciare il capitalismo.

È dunque qui che deve intervenire un dibattito sulla pratica dello sfascio e la tattica del Black bloc. Un dibattito che non discuta sul valore positivo o negativo di rompere vetrine: non sono altro che vetrine.

Parliamo di un dibattito circa le strategie da perseguire per vincere sul breve periodo contro queste odiose riforme, e sul lungo periodo contro il sistema capitalista. Se lo sfascio e il Black bloc permettono di riportare delle vittorie o grandi vantaggi in una particolare manifestazione, devono dunque essere utilizzate, e sono naturalmente legittimate dal momento che si iscrivono in una lotta legittima. Se, al contrario, hanno per qualunque ragione un impatto negativo in un particolare contesto, allora conviene non utilizzarli. Questi metodi non sono dei fini, ma dei mezzi. 


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