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Noi, non violent* nel corteo di testa…

La convergenza naturale delle riflessioni esposte nei precedenti articoli sta sicuramente nell’apparizione e nelle pratiche del corteo di testa. Questa ritrovata forma di autonomia, sviluppatasi in Francia a partire dal 2016 durante il conflitto contro la Loi Travail, è un’entità eterogenea e composta da sensibilità molto diverse tra di loro. 
Il tono di questo articolo, scritto da alcun* non violent* del corteo di testa e ispirato alle forme di lotta politica della Disobbedienza, è per molti versi agli antipodi dei precedenti. I riferimenti al cristianesimo di base e alla Speranza costituente si mescolano alla necessità di superare le forme di lotta sindacali e “consentite”; un certo “spirito martirizzante” confluisce in una presenza articolata dei corpi qui e ora.
È proprio per esplorare queste complessità interne al corteo di testa che diffondiamo una riflessione sull’articolazione delle loro pratiche, anche in risposta agli inviti a dissociarsi dalle violenze.

 

10 maggio

 

Eravamo tra i 15mila presenti sul Pont d’Austerlitz intorno ai 1500 membri del black bloc. Se non c’eravamo il primo maggio, ci siamo stati in altre occasioni, o avremmo potuto esserci. In ogni caso, facciamo parte del corteo di testa in maniera non-violenta, e vogliamo spiegare perché.

Scriviamo queste righe innanzitutto in preda al nervoso per i commenti che si sentono dopo la manifestazione del primo maggio 2018. 

Come si può “celebrare” il maggio ’68 — con le sue barricate, le sue auto ribaltate, i suoi lanciatori di sampietrini — e auspicare un maggio 2018 di lotta, se poi ci si tira indietro per quello che succede nel corteo di testa? 

Come si può sostenere Notre-Dame-des-Landes e le sue forme di vita alternative, supportare José Bové e lo smantellamento del McDonald’s di Millau, se poi ci si accanisce sul saccheggio di un fast-food della stessa multinazionale davanti alla Gare d’Austerlitz? 

Come si può urlare durante i cortei “Altrimenti scoppia tutto” se poi ci si mette a frignare quando tutto scoppia per davvero? 

Come si può urlare contro la prefettura e i suoi diktat sull’imposizione del percorso della manifestazione, se poi si negoziano degli itinerari-bis destinati a isolare una parte del corteo? 

Come si può dirsi “di sinistra”, se poi le principali accuse rivolte allo Stato sono il disappunto per la presenza insufficiente di forze dell’ordine e per l’esiguo numero di perquisizioni, arresti preventivi e controlli nei confronti di altri militanti?

Ci rifiutiamo di ragionare per assoluti e categorie ben definite. Ci rifiutiamo di distinguere tra “manifestanti buoni” e “manifestanti cattivi”. 

Vogliamo riflettere prima di tutto contro le nostre stesse evidenze. Facciamo parte del corteo di testa e non condanniamo la violenza — anzi, la sosteniamo —, ma ci interroghiamo profondamente sul suo utilizzo. Siamo di fronte a un limite, a una crepa. Sappiamo che l’altro ieri Marcelin, ieri Valls, oggi Macron sanno girare a loro vantaggio questo modo di agire, fino a utilizzarlo per giustificare i giri di vite securitari. Temiamo che questa violenza faccia ricadere gli indecisi dalla parte di chi rigetta il movimento sociale in corso.

Non ci facciamo illusioni sull’efficacia “militare” di una simile tattica, disinnescata da un potere sempre più forte. Non ci fidiamo del virilismo di queste pratiche, e ci inquieta una forma di violenza così sicura di se stessa e della propria legittimità. Una violenza che dimentica che dietro l’armatura da CRS ci sono esseri umani. Sappiamo che la violenza è un veleno sia per chi ne fa uso sia per chi la subisce, per l’intera comunità umana.

È per questo, d’altro canto, che vale la pena ricordare che la violenza nella nostra società non si dispiega nelle piazze, ma nei consigli di amministrazione, nelle riunioni paritetiche, nelle leggi votate dall’Assemblea Nazionale. Jean Jaurès lo diceva già all’inizio del secolo scorso. E questa violenza è tanto più presente e brutale quando viene dalle forze dell’ordine, nelle manifestazioni o nei crimini commessi dalla polizia nei quartieri popolari.

E allora perché facciamo parte del corteo di testa? Cosa ci facciamo, dal momento che non lanciamo oggetti e non sfasciamo vetrine?

Alcuni di noi, all’inizio, hanno semplicemente rigettato questa violenza. Ammettiamo che certi potrebbero essersi uniti al corteo di testa attratti dall’odore della polvere e dal sentore che “è lì che succede tutto”. Anche perché altrove non succede poi granché. Il resto del corteo è di una noia mortale, nel senso politico e filosofico del termine. I cortei sindacali sono saturi di camion, di impianti di amplificazione, di una potenza tecnica che schiaccia ogni forma di vita e riduce le manifestazioni a una gitarella, se va bene, e se va male a un corteo funebre.

Queste sfilate regolamentate non disturbano nessuno, e alla fine vengono ridotte alle chiacchiere di rito sulle cifre dei manifestanti. Ciò che c’è di umano viene dunque ridotto a un numero: gran risultato!

Gli applausi a ritmo, la musica della fanfara, l’umorismo e la poesia degli slogan urlati o scritti sui muri, il senso di fratellanza e solidarietà e il calore umano che si dispiegano nel corteo di testa ci riporta in vita — laddove i modi della vita del capitalismo produttivo ci atomizzano, ci estinguono, ci rendono zombi e ci riducono (per l’appunto) a numeri.

Sappiamo che l’adorazione della vita e della violenza hanno avuto, nel corso della storia, pericolosi collegamenti sotto il fascismo. Stiamo in guardia da questa deriva.

La violenza del corteo di testa non è una e una sola. Ci sentiamo a disagio di fronte ai lanci contro le forze dell’ordine, in particolare quando hanno lo scopo di ferire. Alcuni di noi condannano questo gesto. Vediamo sotto un’altra luce, invece, le insegne pubblicitarie sradicate o le vetrine delle aziende-simbolo del capitalismo produttivo infrante — come banche, assicurazioni, agenzie immobiliari, multinazionali del mangiar male, mobilio urbano di proprietà dei magnati della pubblicità…

In uno spazio pubblico in cui l’espressione pubblica dei valori è monopolizzata dai simboli di questo capitalismo, questi atti ci ricordano quelli degli iconoclasti, i distruttori delle statue e degli idoli delle rivolte religiose dal Medioevo alla Riforma Protestante alla Rivoluzione Francese. Chi è cristiano tra di noi la vede un po’ come l’ira di Gesù nel tempio contro i mercanti di una religione di conforto e di ordine. Le distruzioni del corteo di testa infrangono la vetrina dell’ordine del mondo, fanno saltare in aria le evidenze della società per ciò che realmente è. Non siamo così ingenui da credere che porterà a un’insurrezione, ma questi gesti sono come delle crepe che fanno trapassare la Speranza di un rovesciamento radicale del mondo, Speranza necessaria affinché un giorno accada.

Gandhi diceva che tra la passività e la violenza avrebbe scelto la seconda. Noi invece riconosciamo di non avere scelte. In mancanza di un movimento di massa non-violento come quelli sviluppatisi in India o negli Stati Uniti di Martin Luther King — per quanto affini a certe forme di azione sindacale nel settore energetico, postale e universitario (come blocchi e occupazioni) — tentiamo di articolare la nostra non-violenza con la violenza di altri all’interno del corteo di testa.

Questo, sia per la nostra non-adesione alla violenza sia, a volte, anche per semplice paura. Pensiamo di essere quelle e quelli tra i quali è possibile nascondersi per cambiarsi d’abito. Quelli che si piazzano davanti alle videocamera della polizia. Gli scudi umani che fanno esitare il prefetto al momento di ordinare cariche più violente di quanto già non siano. Noi siamo l’acqua dei pesci. Soffocando e piangendo senza maschera sotto i gas lacrimogeni, partecipiamo a rendere visibile una violenza di Stato che viene esercitata unicamente su delle persone, e che tenta di nascondersi dietro la violenza minore dei manifestanti — rivolta principalmente sugli oggetti. 

Non è una posizione confortevole, ma la preferiamo di gran lunga a tutti i discorsi quasi automatici che si sentono all’indomani di ogni manifestazione. Non violent*, non confondiamo il nemico. Scegliamoci i nostri amici. Nel corteo di testa ci troviamo bene, e continueremo a farlo.

Da parte di qualcun* nel corteo di testa…


1º maggio: verso l’infinito e oltre

Un altro approfondimento sulla primavera francese da Paris Luttes. In questo articolo, alcune riflessioni sulla manifestazione del primo maggio e sulle pratiche del corteo di testa, verso una reale condivisione del comune.

5 maggio 2018

Questo non è un testo descrittivo degli episodi che hanno ostacolato il primo maggio parigino. Altri lo faranno meglio di noi. Non riteniamo di interesse primario una descrizione metodica. Vorremmo piuttosto mettere in chiaro che la manifestazione del primo maggio non è stata interessante tanto per i suoi episodi quanto per il loro aspetto diffuso. 

In effetti, non si contano i cortei selvaggi (ossia fuori dai dispositivi inizialmente previsti dalla prefettura) che hanno attraversato la giornata. È in questo senso che si intuisce il nostro successo. La manifestazione del primo maggio, altrimenti ridotta a un meeting della CGT  e vero simbolo dei cortei mortiferi, è stata destituita, debordando ovunque. 

Forse non si può nemmeno più parlare di corteo di testa, quanto piuttosto di una manifestazione in piena regola, che rifiuta di sfilare a schiere serrate insieme al servizio d’ordine dei sindacati sul percorso stabilito dalla prefettura.  

Questa sorta di contro-manifestazione è ciò che la prefettura, incapace di qualificarla o di comprenderla, chiama “i 14500 manifestanti ai margini”.

Noi invece preferiamo chiamarla “dimostrazione di potenza”.

Siamo arrivati al punto in cui è impossibile sapere chi è chi. Il fantasma del “soggetto-sfasciatore” costruito dallo Stato crolla in mille pezzi. Allo stesso modo, la mitologia dell’“attaccare non fa massa” è stata gettata nell’immondezzaio della Storia.

Dunque non è senza un certo sentimento di forza che ritorniamo su questa manifestazione multipla del primo maggio. Raramente abbiamo visto un dispositivo poliziesco del genere aggirato in questo modo, così tante stade di Parigi rovesciate in un solo giorno. Potremmo anche parlare di una certa forma di vittoria in tutto questo debordare, per quanto gli apostoli della disfatta non facciano che parlare delle violenze sbirresche e del numero di interrogati. 

Finiamola di accontentarci di questa posa debole e martellante, che ci assegna sistematicamente al ruolo dei perdenti. Non parliamo più di repressione “ingiusta” e “illegittima” di uno Stato che se la prende con noi quando in fondo la nostra non è che una forma di violenza “simbolica”.

È tempo di ribaltare questa tendenza. È tempo di far sì che la nostra forza non sia più simbolica, ma abbia un impatto reale sul corso delle cose. È tempo di allontanarsi dalla favola del buon-piccolo-gauchista-debole-e-innocente che si fa picchiare dallo Stato. Pensare che da questo tipo di ragionamento possa nascere una potenza rivoluzionaria è una speranza vana. Non farà che produrre l’indignazione online, qualche notifica, un clic, forse una petizione: sicuramente non più forza.

Non vogliamo negare la repressione. Proponiamo invece di accettarla. Non si tratta di indignarsi, ma di prenderne atto e di adattarvi le nostre pratiche. Organizzarci di conseguenza.

Questo organizzarci non deve fermarsi alle parole. Significa prendersi cura degli amici fuori dalla garde à vue, sostenerli in tribunale ma anche dopo, quando potranno uscire. Significa prendersi una sera libera per loro se sono ai domiciliari o con obbligo di firma, invece di andare a divertirsi in discoteca e preservare l’isolamento. Il comunismo del quotidiano non si limita ai momenti di festa. Deve esprimersi anche e soprattutto nei casini, nei momenti in cui la società fa di tutto per distruggerci e isolarci. La vera amicizia ci deve avvicinare. Organizzarsi è anche questo: prendersi cura l’un l’altra nei momenti di debolezza individuale per essere più forti collettivamente. Per chi poi non avesse amici in galera e magari qualche spicciolo di troppo (fico!), il sostegno effettivo può passare per un finanziamento al Legal Team – che non sarà capace di fare tutto da solo – a questo link: https://www.cotizup.com/stop-repression.  

È allarmante, di fronte a una repressione del genere, che molti siano usciti senza un minimo di materiale di autodifesa dalla polizia e dai suoi gas lacrimogeni. Una mascherina da vernice e un paio di occhiali da bricolage sarebbero bastati a evitare certe nasse, come quella di fianco al McDonald’s bruciato. Smettiamola di attardarci su ciò che non dipende da noi o rispetto al quale non possiamo fare nulla nell’immediato. Questo atteggiamento non fa altro che produrre indignazione costante e posture di rivendicazione — in una parola: l’indebolimento e la dipendenza dalle istituzioni. Se l’indignazione può essere utilizzata dalle famiglie e dai parenti delle vittime per ragioni evidentemente strategiche ed emotive, non può tuttavia costituire una parola d’ordine rivoluzionaria: ci condurrebbe alla sconfitta.

Allo stesso mondo, è inutile indignarsi perché i sindacati hanno subito accettato di deviare il percorso della manifestazione. Questo ci riporta a parlare della nostra debolezza e dipendenza nei loro confronti, delle speranze che tutto sommato riponiamo in loro invece di contare maggiormente sulla nostra forza. E quando parliamo di forza, non parliamo di un “black bloc”, di “radicali”, di “ultrasinistra” o di altre identità prefabbricate; parliamo di tutte e tutti quelli che hanno deciso di non seguire più un percorso già tracciato, che sia al lavoro, nella vita quotidiana, nella sfera domestica o in una manifestazione. È altrettanto possibile che portino un k-way, una casacca, entrambe o nessuna delle due.

Per concludere: che insegnamenti trarre da questa manifestazione?

  1. Sì, è possibile aggirare il dispositivo poliziesco, per grande che sia, ma questo significa organizzarsi di conseguenza. Cosa che hanno saputo fare le compagne e i compagni venuti da tutta la Francia e da ogni dove.
  2. Una volta ripartiti questi ultimi, qual è il prossimo passo? Difficile a dirsi, per il momento. Il tentativo di far esplodere la conflittualità della manifestazione è riuscito. Continuiamo così.
  3. Se pure la giornata del primo maggio è stata intensa e resterà impressa nella nostra memoria, è anche vero che non ha portato grandi sorprese. Ci ha dimostrato che l’autonomia è sempre capace di ciò che ancora oggi è il suo collante: le sommosse.
  4. È evidente che non basta. Chiunque abbia bazzicato un po’ le occupazioni universitarie in Île-de-France giunge alle stesse conclusioni. Non c’è attualmente alcun progetto positivo concreto nell’autonomia, se non delle premesse. Tutti preferiscono “far cacao”, che potremmo sintetizzare nella formula “alcol droga e insurrezione”. È terribile vedere fino a che punto, una volta liberati degli spazi e delle temporalità, queste tre cose ci riportino tristemente al giorno d’oggi. Vi si scorge la stessa miseria esistenziale e affettiva, gli stessi dispositivi che ci distruggono dolcemente.
  5. È quindi urgente partecipare positivamente alle nostre azioni e uscire dal nichilismo circostante — che sia il nostro o quello di quest’epoca.

Per chi non ne fosse al corrente, la sinistra continua a decomporsi e a scaricarsi. Cosa fare di loro?

È urgente proporre qualcosa di non-nichilista. Se vogliamo evitarci l’ennesima generazione sacrificata sull’altare del liberalismo esistenziale, dell’eterna ricomposizione dei gruppi, della miseria affettiva e dell’inerzia generale, bisogna rinnovarsi, studiare, sperimentare la comunità, generalizzare la cura, inventarsi nuove forme, mettersi a nudo, uscire dall’impasse politica contemporanea, dall’attivismo fine a se stesso. Bisogna chiedersi cosa ci accomuna, all’infuori della nostra rabbia per come va il mondo.

Far coagulare la rabbia va bene, ma materializzarla in pratiche e parole d’ordine che non abbiano solo valenze negative darebbe loro una forza incredibilmente superiore. 

Des voies communes

 


28 aprile 2018: Upside Down Karaoke!


31 marzo 2018: Ayawasca+Buena Madera+Bills!


SOLIDARIETÀ ALLA VIDA DI SAN GIACOMO DELL’ORIO!

La genialità dell’operazione economica sta nel sovrapporsi al piano su cui commette i suoi misfatti, quello su cui conduce la sua vera guerra: il piano dei legami.
(Comitato Invisibile, Maintenant)

I legami sono pericolosi perché creano esperienze, attaccamenti, comunità, fino a diventare dei veri e propri spazi concreti dell’altrove, al riparo dalle logiche che fanno della vita e dei suoi luoghi una zona grigia a disposizione del mercato.
La Vida di Venezia è uno degli altrove più concreti di questa palude, il «simbolo della possibilità di resistere allo spopolamento di una città e un vero laboratorio di cittadinanza attiva», come i fioi e le fie che lo attraversano scrivono di sé. Una cittadinanza che ha come unica condizione di accesso il proprio corpo, localizzato qui e ora, e il desiderio di fare esperienza collettiva della vita — niente a che vedere con fogli di carta o permessi.
Lo sgombero della Vida di Venezia mostra il vero volto delle «politiche del territorio»: un rapporto di vassallaggio tra potere economico, politico e armato che non si fa problemi a diffondere quanto più riesce il puzzo maleodorante del morbo che sta uccidendo la città — la selva di corpi sudati che la percorre da un capo all’altro, i luoghi sgomberati o riadibiiti ad uso esclusivo del mercato, i brandelli di città svenduti a chi specula e distrugge a suo maggior profitto.
Gli sbirri a San Giacomo, dopo lo sgombero, lasceranno posto ai vigilantes, che presidieranno 24/7 lo stabile posto sotto sequestro penale. Un po’ come gli occupanti della Vida — ma con le armi, e a difesa degli interessi di pochi. Alla fine, è tutta una questione di punti di vista. Se questo è il biglietto da visita di un potere già in grande sintonia col nuovo clima post-elettorale, è perché evidentemente questo nuovo clima è perfettamente in linea col precedente.

FIOI, FIE, SIAMO CON VOI!


24.02.2018: Karaoke Night!


17 febbraio 2018: Jam session in maschera!

Bring your instrument!
Dress code: Jack


Soldati contro Montagne 3: Deserto Rosso Sangue

È tutto vero: la grande proletaria si muove ancora!
Parliamo di Sahel, di Deserto Rosso, di sfruttamento gestione dei flussi migratori.
E per la rubrica “boati in Val Belluna”, il consueto speciale “esercitazioni militari a casa tua”!

Dopo un silenzio assordante di mesi, una puntata doppia per recuperare il tempo perduto!

 


Iniziativa antirepressione: aggiornamenti post G20 di Amburgo, proiezioni e dibattito

Incontro all’XM24 di Bologna, giovedì 1 febbraio.


Venerdì 2 febbraio: Dead Like Me + Kirlian


Dead Like Me (post hc/post metal from France)
https://deadlikeme.bandcamp.com/

Kirlian (Doom noise ambient core from Italy)
https://kirlianscape.bandcamp.com/

Ingresso a offerta libera