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Dal blog Romperelerighe: “Trentino: La grande adunata degli Alpini e la piccola adunata dei (gesti) refrattari”

Ripubblichiamo dal sito romperelerighe.noblogs.org:

La grande adunata degli Alpini e la piccola adunata dei (gesti) refrattari

Un po’ di storia in tempi di amnesia interessata

In guerra la prima vittima è la verità. Eschilo

La Prima guerra mondiale è costata al proletariato italiano 680 mila morti, mezzo milione di invalidi e mutilati, un milione di feriti. A conferma del fatto che, tolti i cenacoli nazionalisti e le ridotte schiere dell’interventismo cosiddetto democratico o “rivoluzionario”, la gran massa dei coscritti visse la guerra come tragica fatalità o come immane macello a cui sottrarsi, parlano gli atti dei tribunali militari: 870 mila denunce, delle quali 470 mila per renitenza; 350 mila processi celebrati; circa 170 mila pene detentive, tra le quali 15 mila all’ergastolo; 4028 condanne a morte (in gran parte in contumacia), delle quali 750 eseguite. Un numero, quest’ultimo, assai superiore a quello delle condanne capitali eseguite in Francia (600), Gran Bretagna (330) e Germania (meno di 50), nonostante la più lunga partecipazione al conflitto e il maggior numero di soldati impegnati dai rispettivi eserciti. I numerosi atti di ribellione e di ammutinamento – dallo “sciopero” per le mancate licenze agli spari in aria, al fuoco indirizzato contro gli ufficiali particolarmente odiati – hanno incontrato una repressione spietata, fatta di decimazioni, di fucilazioni sommarie, di spari alle spalle da parte dei carabinieri, il cui ruolo era quello di spingere anche con le baionette i soldati fuori dalle trincee durante gli assalti suicidi ordinati dai comandanti per conquistare qualche metro di territorio nemico. Tra i generali, «che la guerra l’avete voluta,/ scannatori di carne venduta/ e rovina della gioventù» (Gorizia tu sei maledetta), oltre a Cadorna, «nato d’un cane» (E anche ar me marito), si distinsero nelle fucilazioni sommarie Andrea Graziani, Gugliemo Pecori Giraldi e Carlo Petitti di Roreto, a cui ancora oggi sono intitolati monumenti, vie, piazze, targhe commemorative e rifugi montani (come il rifugio Graziani ai piedi del Monte Altissimo in Trentino).

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1º maggio a Parigi: la necessità di organizzarsi

In risposta all’articolo precedente, un compagno presenta la sua analisi sullo svolgimento della manifestazione del 1º maggio a Parigi, e in particolar modo nella parte più nera del corteo di testa. Confutare le critiche anti-autoritarie all’autoritarismo del Black bloc non significa astenersi da considerazioni più perplesse su tre nodi problematici: la necessità di organizzarsi, le responsabilità individuali e collettive, l’indipendenza del movimento radicale.

 

8 maggio

 

Gli striscioni dell’ormai famoso corteo di testa, che ormai non ha bisogno di presentazioni, si raggruppa al centro del ponte. Dietro, un Black bloc di circa 1200 persone (secondo la polizia) è pronto a dare il via alla manifestazione.

Negli scorsi giorni, come del resto succede dopo ogni manifestazione in cui ci siano sfasci, sono apparsi molti articoli su Internet a fustigare i metodi del Black bloc, invitandolo a farsi più discreto. Ovviamente non si tratta di articoli del Figaro, della BMF TV o di altri organi di propaganda mediatica del sistema capitalista che ci governa. Sono articoli come Appello ai convinti: una critica anti-autoritaria del Black bloc, pubblicati su siti come Paris-Luttes.

Prima di tutto, vorrei rimettere in questione queste accuse. Il Black bloc non è un’entità politica. Il Black bloc non porta in sé la responsabilità collettiva di un’organizzazione sindacale e/o politica. È un assembramento di piccoli gruppi di individui che alle volte si organizzano tra loro. Questi gruppi agiscono liberamente e in piena coscienza. Non ci sono poliziotti o fasci infiltrati all’ordine dello sfascio — e se ci sono, sono pochi.

La tattica del black bloc (perché di tattica si parla, e non di movimento) permette a ciascun individuo d’intraprendere individualmente un’azione, che può essere seguita o meno da altri individui. Ciascuno è responsabile delle proprie azioni. Non esiste alcuna gerarchia alla quale ricondurre le responsabilità.

In questo senso, la tattica del Black bloc si ispira all’ideologia anarchica. Niente leader né capi o altre forme di autorità — per quanto nell’articolo sopracitato si auspichino atteggiamenti meno autoritari nel corteo di testa. Il Black bloc appare se la situazione è propizia, se gli sguardi sono complici e se i manifestanti decidono, ciascuno individualmente, se indossare un k-way e un cappuccio oppure no. Ancora una volta: nessuno decide. Nessuno obbliga. 

È la somma delle decisioni individuali che crea la situazione. Ed è in questo che risiede tutta la forza di queste azioni. Non c’è alcun gruppo autoritario o decisionale a intraprenderle, e mai ci sarà.

A volte, in questo articolo, si parlerà di un “noi” per designare la composizione in Black bloc dei manifestanti radicali. Non fraintendete: questo “noi” non esiste. È semplicemente funzionale alla lettura e alla comprensione.

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Appello ai convinti: una critica anti-autoritaria al Black bloc

Gli avvenimenti del primo maggio 2018 a Parigi sono ormai diventati il metro sul quale misurare le differenti posizioni di movimento. In questo articolo, un’altra critica nei confronti della tattica del Black bloc e delle pratiche dispiegate in quell’occasione.

 

4 maggio

 

A rischio di fare quelli che sparano sulla croce rossa, abbiamo scelto la via del disincanto. Per noi la manifestazione del 1º maggio è stata un fallimento, e la strategia autoritaria imposta dal Black bloc non è stata né giustificabile né tantomeno vantaggiosa per il resto della manifestazione. Ne prendiamo atto collettivamente, e invitiamo a oltrepassare le nostre pratiche ritualizzate nel corteo di testa. 

 

È veramente sorprendente che ogni manifestazione in cui ci sia un confronto con la sbirraglia, malgrado il contesto sociale tendenzialmente cupo, venga salutata come una vittoria. Un po’ come se sfasciare un sacco di vetrine equivalesse a un gol segnato dalla propria squadra preferita. Come un sol uomo, il gruppo di supporter fa la ola per poi tornare a casa in attesa del prossimo incontro, del prossimo scontro.

Ci sembra che l’interesse puntuale e circostanziato di un Black bloc non consista in questo, e che ci stiamo piano piano rinchiudendo in un trip egotico e autoritario.  

Lungi dal condannare in maniera generale le azioni dirette da parte dei manifestanti, facenti o meno parte del Black bloc, ci piacerebbe rimetterlo in questione da un punto di vista strategico e da una prospettiva anti-autoritaria. Per noi infatti poco importa che venga dato fuoco a un McDonald’s o a una concessionaria Renault: bruciateli anche tutti!

Secondo noi, però, non si può procedere con un’azione diretta senza riflettere:

  1. sulla pertinenza dell’obiettivo
  2. Sulla finalità politica dell’azione diretta
  3. Sulle circostanze della manifestazione in causa
  4. Sull’inclusione e la comprensione da parte del resto della manifestazione o della popolazione

 

Un fallimento strategico

Alcuni membri del Black bloc del primo maggio, a nostro avviso, non si sono posti correttamente queste domande. Un blocco che molto spesso si intestardisce a buttarsi nella mischia e a fuggire l’avanzata delle truppe distruggendo tutto al suo passaggio.

Il fatto di essersi precipitati direttamente sul McDonald’s e sugli obiettivi adiacenti proprio all’inizio della manifestazione ha provocato:

  1. il blocco della manifestazione, che non è mai avanzata
  2. una pressione che si è riversata sui manifestanti non equipaggiati e in parte accerchiati sul Pont d’Austerlitz
  3. di fatto, lo smembramento di uno dei più grandi cortei di testa della storia, che ha perso tutta la sua forza potenziale
  4. l’imbocco del percorso-bis indicato dalla prefettura da parte dei cortei sindacali
  5. una repressione molto dura e molti arresti
  6. una campagna mediatica incentrata sull’opinione pubblica volta ad aumentare l’intensità della repressione

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A posto così?

Il corteo di testa, pur includendo una molteplicità di pratiche e di sensibilità, non esaurisce le posizioni di movimento: in questo articolo del 9 maggio, alcune brevi ma incisive critiche da parte di alcun* compagn*.

Da sempre, e soprattutto durante i cosiddetti “movimenti sociali”, alcune organizzazioni politiche (partiti, sindacati, ecc.) tentano di prendere il potere sulle lotte. Sempre le stesse pratiche, che si ripetono uguali ogni volta per prendere il comando dei rivoltosi, deturnare le rivolte e integrarle a un programma politico, per poi farle fruttare in cabina elettorale o in rapporti di forza privati e finalizzati a interessi specifici. Nelle assemblee ci si infiltra, nei cortei si prende la testa, nella repressione ci si dissocia. È un mestiere: si chiama politica.

Storicamente, il vero simbolo di questa presa di potere sulle rivolte è il quadro sindacale in testa al corteo. È per questo che, nel corso dei decenni, la sfida per tutte e tutti quelli che lottano (liceali, sans-papiers, disoccupati, studenti, ecc.) è spesso stata quella di prendere la testa della manifestazione per opporsi a questa restituzione al sindacato. Per gli altri incontrollabili, invece, si trattava spesso di esprimersi in coda al corteo. Queste due pratiche non contraddittorie costituivano una forma di autonomia contro partiti e sindacati, e hanno permesso negli anni di debordare attivamente il mantenimento dell’ordine dei Servizi d’Ordine in testa o in coda al corteo: disordini, sfasci, biforcazioni delle manifestazioni, cortei selvaggi, diverse forme di occupazione e di conflittualità con i responsabili della manifestazione, e altrettante possibilità per trasformare le classiche sfilate domenicali in pantofole — nelle quali la vitalità degli uni serve ad appoggiare i negoziati degli altri — in momenti sovversivi.

Corteo di testa is the new CGT?

Dalla Loi Travail in poi, una nuova forma di quadro prende la testa della manifestazione, relegando tutte e tutti quelli che lottano dietro la manifestazione, insieme al “paté di testa” sindacale. È ordinato, rituale, specializzato, professionale, spettacolare, mantiene l’ordine a modo suo, sfila e posa davanti alle telecamere alla maniera dei quadri di testa sindacali. Ovviamente, con delle differenze: l’offerta di uniformi North Face e di slogan rap su sfondo fumogeno si adegua certamente meglio alla domanda estetica dell’epoca rispetto alla caro vecchio faccione di Arlette Laguiller e al baffo di Philippe Martinez.
Ma, diciamocelo, il “corteo di testa” è tutto il contrario di un debordamento o di una rivolta.

Preferire il “debordare che manifesta alla manifestazione che deborda” vuol dire militarizzarlo. Vuol dire preferire l’ordine e il potere al disordine ingovernabile. 

Rivòltati

Ingestita e ingestibile, la rivolta non ha uniformi o spazi definiti in un corteo, né tantomeno fotografi autorizzati. Nella rivolta ogni identità è abolita, e assume forme imprevedibili, a volte sconosciute, spesso fuori da ogni norma. Non si può prevedere quando avverrà, né chi ne farà parte, né tantomeno il suo divenire. La rivolta accoglie chi la comprende, qualsiasi siano le ragioni che lo spinge a farne parte. In una rivolta non ci sono più lavoratori, disoccupati, studenti, giovani, vecchi, sfasciatori, pacifisti, K-way neri e Casacche rosse. Non ci sono che rivoltosi. Il vanaglorioso “corteo di testa” si è oramai costituito a norma di una radicalità superficiale a scapito dell’inventiva, dell’effervescenza e della gioia rivoltosa. È proprio questa mancanza che lo priva di ogni portata sovversiva, e lo porta a opporsi a una sauvagerie e a un’incontrollabilità che dunque non vi trovano alcuno spazio di espressione.

Né casacche rosse né K-way neri,
Nessun “il mondo o nulla”,
Siamo selvaggi!

Innominabili incontrollabili 


Noi, non violent* nel corteo di testa…

La convergenza naturale delle riflessioni esposte nei precedenti articoli sta sicuramente nell’apparizione e nelle pratiche del corteo di testa. Questa ritrovata forma di autonomia, sviluppatasi in Francia a partire dal 2016 durante il conflitto contro la Loi Travail, è un’entità eterogenea e composta da sensibilità molto diverse tra di loro. 
Il tono di questo articolo, scritto da alcun* non violent* del corteo di testa e ispirato alle forme di lotta politica della Disobbedienza, è per molti versi agli antipodi dei precedenti. I riferimenti al cristianesimo di base e alla Speranza costituente si mescolano alla necessità di superare le forme di lotta sindacali e “consentite”; un certo “spirito martirizzante” confluisce in una presenza articolata dei corpi qui e ora.
È proprio per esplorare queste complessità interne al corteo di testa che diffondiamo una riflessione sull’articolazione delle loro pratiche, anche in risposta agli inviti a dissociarsi dalle violenze.

 

10 maggio

 

Eravamo tra i 15mila presenti sul Pont d’Austerlitz intorno ai 1500 membri del black bloc. Se non c’eravamo il primo maggio, ci siamo stati in altre occasioni, o avremmo potuto esserci. In ogni caso, facciamo parte del corteo di testa in maniera non-violenta, e vogliamo spiegare perché.

Scriviamo queste righe innanzitutto in preda al nervoso per i commenti che si sentono dopo la manifestazione del primo maggio 2018. 

Come si può “celebrare” il maggio ’68 — con le sue barricate, le sue auto ribaltate, i suoi lanciatori di sampietrini — e auspicare un maggio 2018 di lotta, se poi ci si tira indietro per quello che succede nel corteo di testa? 

Come si può sostenere Notre-Dame-des-Landes e le sue forme di vita alternative, supportare José Bové e lo smantellamento del McDonald’s di Millau, se poi ci si accanisce sul saccheggio di un fast-food della stessa multinazionale davanti alla Gare d’Austerlitz? 

Come si può urlare durante i cortei “Altrimenti scoppia tutto” se poi ci si mette a frignare quando tutto scoppia per davvero? 

Come si può urlare contro la prefettura e i suoi diktat sull’imposizione del percorso della manifestazione, se poi si negoziano degli itinerari-bis destinati a isolare una parte del corteo? 

Come si può dirsi “di sinistra”, se poi le principali accuse rivolte allo Stato sono il disappunto per la presenza insufficiente di forze dell’ordine e per l’esiguo numero di perquisizioni, arresti preventivi e controlli nei confronti di altri militanti?

Ci rifiutiamo di ragionare per assoluti e categorie ben definite. Ci rifiutiamo di distinguere tra “manifestanti buoni” e “manifestanti cattivi”. 

Vogliamo riflettere prima di tutto contro le nostre stesse evidenze. Facciamo parte del corteo di testa e non condanniamo la violenza — anzi, la sosteniamo —, ma ci interroghiamo profondamente sul suo utilizzo. Siamo di fronte a un limite, a una crepa. Sappiamo che l’altro ieri Marcelin, ieri Valls, oggi Macron sanno girare a loro vantaggio questo modo di agire, fino a utilizzarlo per giustificare i giri di vite securitari. Temiamo che questa violenza faccia ricadere gli indecisi dalla parte di chi rigetta il movimento sociale in corso.

Non ci facciamo illusioni sull’efficacia “militare” di una simile tattica, disinnescata da un potere sempre più forte. Non ci fidiamo del virilismo di queste pratiche, e ci inquieta una forma di violenza così sicura di se stessa e della propria legittimità. Una violenza che dimentica che dietro l’armatura da CRS ci sono esseri umani. Sappiamo che la violenza è un veleno sia per chi ne fa uso sia per chi la subisce, per l’intera comunità umana.

È per questo, d’altro canto, che vale la pena ricordare che la violenza nella nostra società non si dispiega nelle piazze, ma nei consigli di amministrazione, nelle riunioni paritetiche, nelle leggi votate dall’Assemblea Nazionale. Jean Jaurès lo diceva già all’inizio del secolo scorso. E questa violenza è tanto più presente e brutale quando viene dalle forze dell’ordine, nelle manifestazioni o nei crimini commessi dalla polizia nei quartieri popolari.

E allora perché facciamo parte del corteo di testa? Cosa ci facciamo, dal momento che non lanciamo oggetti e non sfasciamo vetrine?

Alcuni di noi, all’inizio, hanno semplicemente rigettato questa violenza. Ammettiamo che certi potrebbero essersi uniti al corteo di testa attratti dall’odore della polvere e dal sentore che “è lì che succede tutto”. Anche perché altrove non succede poi granché. Il resto del corteo è di una noia mortale, nel senso politico e filosofico del termine. I cortei sindacali sono saturi di camion, di impianti di amplificazione, di una potenza tecnica che schiaccia ogni forma di vita e riduce le manifestazioni a una gitarella, se va bene, e se va male a un corteo funebre.

Queste sfilate regolamentate non disturbano nessuno, e alla fine vengono ridotte alle chiacchiere di rito sulle cifre dei manifestanti. Ciò che c’è di umano viene dunque ridotto a un numero: gran risultato!

Gli applausi a ritmo, la musica della fanfara, l’umorismo e la poesia degli slogan urlati o scritti sui muri, il senso di fratellanza e solidarietà e il calore umano che si dispiegano nel corteo di testa ci riporta in vita — laddove i modi della vita del capitalismo produttivo ci atomizzano, ci estinguono, ci rendono zombi e ci riducono (per l’appunto) a numeri.

Sappiamo che l’adorazione della vita e della violenza hanno avuto, nel corso della storia, pericolosi collegamenti sotto il fascismo. Stiamo in guardia da questa deriva.

La violenza del corteo di testa non è una e una sola. Ci sentiamo a disagio di fronte ai lanci contro le forze dell’ordine, in particolare quando hanno lo scopo di ferire. Alcuni di noi condannano questo gesto. Vediamo sotto un’altra luce, invece, le insegne pubblicitarie sradicate o le vetrine delle aziende-simbolo del capitalismo produttivo infrante — come banche, assicurazioni, agenzie immobiliari, multinazionali del mangiar male, mobilio urbano di proprietà dei magnati della pubblicità…

In uno spazio pubblico in cui l’espressione pubblica dei valori è monopolizzata dai simboli di questo capitalismo, questi atti ci ricordano quelli degli iconoclasti, i distruttori delle statue e degli idoli delle rivolte religiose dal Medioevo alla Riforma Protestante alla Rivoluzione Francese. Chi è cristiano tra di noi la vede un po’ come l’ira di Gesù nel tempio contro i mercanti di una religione di conforto e di ordine. Le distruzioni del corteo di testa infrangono la vetrina dell’ordine del mondo, fanno saltare in aria le evidenze della società per ciò che realmente è. Non siamo così ingenui da credere che porterà a un’insurrezione, ma questi gesti sono come delle crepe che fanno trapassare la Speranza di un rovesciamento radicale del mondo, Speranza necessaria affinché un giorno accada.

Gandhi diceva che tra la passività e la violenza avrebbe scelto la seconda. Noi invece riconosciamo di non avere scelte. In mancanza di un movimento di massa non-violento come quelli sviluppatisi in India o negli Stati Uniti di Martin Luther King — per quanto affini a certe forme di azione sindacale nel settore energetico, postale e universitario (come blocchi e occupazioni) — tentiamo di articolare la nostra non-violenza con la violenza di altri all’interno del corteo di testa.

Questo, sia per la nostra non-adesione alla violenza sia, a volte, anche per semplice paura. Pensiamo di essere quelle e quelli tra i quali è possibile nascondersi per cambiarsi d’abito. Quelli che si piazzano davanti alle videocamera della polizia. Gli scudi umani che fanno esitare il prefetto al momento di ordinare cariche più violente di quanto già non siano. Noi siamo l’acqua dei pesci. Soffocando e piangendo senza maschera sotto i gas lacrimogeni, partecipiamo a rendere visibile una violenza di Stato che viene esercitata unicamente su delle persone, e che tenta di nascondersi dietro la violenza minore dei manifestanti — rivolta principalmente sugli oggetti. 

Non è una posizione confortevole, ma la preferiamo di gran lunga a tutti i discorsi quasi automatici che si sentono all’indomani di ogni manifestazione. Non violent*, non confondiamo il nemico. Scegliamoci i nostri amici. Nel corteo di testa ci troviamo bene, e continueremo a farlo.

Da parte di qualcun* nel corteo di testa…


1º maggio: verso l’infinito e oltre

Un altro approfondimento sulla primavera francese da Paris Luttes. In questo articolo, alcune riflessioni sulla manifestazione del primo maggio e sulle pratiche del corteo di testa, verso una reale condivisione del comune.

5 maggio 2018

Questo non è un testo descrittivo degli episodi che hanno ostacolato il primo maggio parigino. Altri lo faranno meglio di noi. Non riteniamo di interesse primario una descrizione metodica. Vorremmo piuttosto mettere in chiaro che la manifestazione del primo maggio non è stata interessante tanto per i suoi episodi quanto per il loro aspetto diffuso. 

In effetti, non si contano i cortei selvaggi (ossia fuori dai dispositivi inizialmente previsti dalla prefettura) che hanno attraversato la giornata. È in questo senso che si intuisce il nostro successo. La manifestazione del primo maggio, altrimenti ridotta a un meeting della CGT  e vero simbolo dei cortei mortiferi, è stata destituita, debordando ovunque. 

Forse non si può nemmeno più parlare di corteo di testa, quanto piuttosto di una manifestazione in piena regola, che rifiuta di sfilare a schiere serrate insieme al servizio d’ordine dei sindacati sul percorso stabilito dalla prefettura.  

Questa sorta di contro-manifestazione è ciò che la prefettura, incapace di qualificarla o di comprenderla, chiama “i 14500 manifestanti ai margini”.

Noi invece preferiamo chiamarla “dimostrazione di potenza”.

Siamo arrivati al punto in cui è impossibile sapere chi è chi. Il fantasma del “soggetto-sfasciatore” costruito dallo Stato crolla in mille pezzi. Allo stesso modo, la mitologia dell’“attaccare non fa massa” è stata gettata nell’immondezzaio della Storia.

Dunque non è senza un certo sentimento di forza che ritorniamo su questa manifestazione multipla del primo maggio. Raramente abbiamo visto un dispositivo poliziesco del genere aggirato in questo modo, così tante stade di Parigi rovesciate in un solo giorno. Potremmo anche parlare di una certa forma di vittoria in tutto questo debordare, per quanto gli apostoli della disfatta non facciano che parlare delle violenze sbirresche e del numero di interrogati. 

Finiamola di accontentarci di questa posa debole e martellante, che ci assegna sistematicamente al ruolo dei perdenti. Non parliamo più di repressione “ingiusta” e “illegittima” di uno Stato che se la prende con noi quando in fondo la nostra non è che una forma di violenza “simbolica”.

È tempo di ribaltare questa tendenza. È tempo di far sì che la nostra forza non sia più simbolica, ma abbia un impatto reale sul corso delle cose. È tempo di allontanarsi dalla favola del buon-piccolo-gauchista-debole-e-innocente che si fa picchiare dallo Stato. Pensare che da questo tipo di ragionamento possa nascere una potenza rivoluzionaria è una speranza vana. Non farà che produrre l’indignazione online, qualche notifica, un clic, forse una petizione: sicuramente non più forza.

Non vogliamo negare la repressione. Proponiamo invece di accettarla. Non si tratta di indignarsi, ma di prenderne atto e di adattarvi le nostre pratiche. Organizzarci di conseguenza.

Questo organizzarci non deve fermarsi alle parole. Significa prendersi cura degli amici fuori dalla garde à vue, sostenerli in tribunale ma anche dopo, quando potranno uscire. Significa prendersi una sera libera per loro se sono ai domiciliari o con obbligo di firma, invece di andare a divertirsi in discoteca e preservare l’isolamento. Il comunismo del quotidiano non si limita ai momenti di festa. Deve esprimersi anche e soprattutto nei casini, nei momenti in cui la società fa di tutto per distruggerci e isolarci. La vera amicizia ci deve avvicinare. Organizzarsi è anche questo: prendersi cura l’un l’altra nei momenti di debolezza individuale per essere più forti collettivamente. Per chi poi non avesse amici in galera e magari qualche spicciolo di troppo (fico!), il sostegno effettivo può passare per un finanziamento al Legal Team – che non sarà capace di fare tutto da solo – a questo link: https://www.cotizup.com/stop-repression.  

È allarmante, di fronte a una repressione del genere, che molti siano usciti senza un minimo di materiale di autodifesa dalla polizia e dai suoi gas lacrimogeni. Una mascherina da vernice e un paio di occhiali da bricolage sarebbero bastati a evitare certe nasse, come quella di fianco al McDonald’s bruciato. Smettiamola di attardarci su ciò che non dipende da noi o rispetto al quale non possiamo fare nulla nell’immediato. Questo atteggiamento non fa altro che produrre indignazione costante e posture di rivendicazione — in una parola: l’indebolimento e la dipendenza dalle istituzioni. Se l’indignazione può essere utilizzata dalle famiglie e dai parenti delle vittime per ragioni evidentemente strategiche ed emotive, non può tuttavia costituire una parola d’ordine rivoluzionaria: ci condurrebbe alla sconfitta.

Allo stesso mondo, è inutile indignarsi perché i sindacati hanno subito accettato di deviare il percorso della manifestazione. Questo ci riporta a parlare della nostra debolezza e dipendenza nei loro confronti, delle speranze che tutto sommato riponiamo in loro invece di contare maggiormente sulla nostra forza. E quando parliamo di forza, non parliamo di un “black bloc”, di “radicali”, di “ultrasinistra” o di altre identità prefabbricate; parliamo di tutte e tutti quelli che hanno deciso di non seguire più un percorso già tracciato, che sia al lavoro, nella vita quotidiana, nella sfera domestica o in una manifestazione. È altrettanto possibile che portino un k-way, una casacca, entrambe o nessuna delle due.

Per concludere: che insegnamenti trarre da questa manifestazione?

  1. Sì, è possibile aggirare il dispositivo poliziesco, per grande che sia, ma questo significa organizzarsi di conseguenza. Cosa che hanno saputo fare le compagne e i compagni venuti da tutta la Francia e da ogni dove.
  2. Una volta ripartiti questi ultimi, qual è il prossimo passo? Difficile a dirsi, per il momento. Il tentativo di far esplodere la conflittualità della manifestazione è riuscito. Continuiamo così.
  3. Se pure la giornata del primo maggio è stata intensa e resterà impressa nella nostra memoria, è anche vero che non ha portato grandi sorprese. Ci ha dimostrato che l’autonomia è sempre capace di ciò che ancora oggi è il suo collante: le sommosse.
  4. È evidente che non basta. Chiunque abbia bazzicato un po’ le occupazioni universitarie in Île-de-France giunge alle stesse conclusioni. Non c’è attualmente alcun progetto positivo concreto nell’autonomia, se non delle premesse. Tutti preferiscono “far cacao”, che potremmo sintetizzare nella formula “alcol droga e insurrezione”. È terribile vedere fino a che punto, una volta liberati degli spazi e delle temporalità, queste tre cose ci riportino tristemente al giorno d’oggi. Vi si scorge la stessa miseria esistenziale e affettiva, gli stessi dispositivi che ci distruggono dolcemente.
  5. È quindi urgente partecipare positivamente alle nostre azioni e uscire dal nichilismo circostante — che sia il nostro o quello di quest’epoca.

Per chi non ne fosse al corrente, la sinistra continua a decomporsi e a scaricarsi. Cosa fare di loro?

È urgente proporre qualcosa di non-nichilista. Se vogliamo evitarci l’ennesima generazione sacrificata sull’altare del liberalismo esistenziale, dell’eterna ricomposizione dei gruppi, della miseria affettiva e dell’inerzia generale, bisogna rinnovarsi, studiare, sperimentare la comunità, generalizzare la cura, inventarsi nuove forme, mettersi a nudo, uscire dall’impasse politica contemporanea, dall’attivismo fine a se stesso. Bisogna chiedersi cosa ci accomuna, all’infuori della nostra rabbia per come va il mondo.

Far coagulare la rabbia va bene, ma materializzarla in pratiche e parole d’ordine che non abbiano solo valenze negative darebbe loro una forza incredibilmente superiore. 

Des voies communes

 


Riflessioni sugli sfasci in manifestazione e sugli avvenimenti del 1º maggio

Continuano gli approfondimenti sulla primavera francese. In questo articolo, alcune riflessioni sulla pratica della casse e del black bloc.

 

da  Paris Luttes, 2 maggio 2018

 

Ci siamo: tutti i media ne parlano. Le politiche di destra li condannano fermamente, auspicando una maggiore repressione; le politiche di sinistra tentano di far passare i casseur per dei finti manifestanti infiltrati per screditare il movimento sociale contro Macron. 

Gli avvenimenti del primo maggio a Parigi sono sulla prima pagina di tutti i giornali. BMF TV e compagnia cantante sono ormai un disco rotto, e tutti hanno come al solito diritto all’abituale logorrea sui cattivi-teppisti-vestiti-di-nero-ma-chi-sono-costoro?

Quanto accaduto il primo maggio a Parigi ci dà l’occasione per qualche riflessione sulla pratica dello sfascio, sul suo trattamento politico e mediatico, così come sul dibattito strategico che necessariamente apre.

Cominciamo dall’inizio. Cos’è la casse e che cos’è un black bloc?

 

Cos’è la casse

La casse (sfascio) è una pratica orientata alla distruzione di beni materiali specifici, identificati come nemici. Si rivolge dunque ai simboli dello stato (commissariati di polizia, gendarmerie, veicoli delle forze dell’ordine), ai simboli del capitalismo (banche, compagnie assicurative, agenzie immobiliari, catene di fast-food, spazi espositivi, boutique di lusso), o ancora ai simboli dell’arroganza borghese (come auto e hotel di lusso). La casse è una pratica, non un fine. Gli sfasciatori non distruggono per distruggere, spinti da un malsano piacere per la distruzione degli oggetti; e, se pure a volte questa tendenza esiste, è da considerarsi assolutamente minoritaria. Questo modo di agire si chiama “propaganda col fatto”. È un metodo di ispirazione anarchica che cerca di passare dalle affermazioni e dalle posizioni di principio all’azione. Questo fa della casse un metodo illegale e accettato in quanto tale. L’idea che vi sta dietro è infatti l’accettazione della conflittualità con lo Stato e il capitale, ma anche l’infrazione dei limiti stabiliti e autorizzati da questi ultimi.

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Cosa fate realmente quando accusate i casseur di essere sbirri

Traduciamo e pubblichiamo il primo di alcuni approfondimenti sulla “primavera illimitata” francese (ma non solo) apparsi in questi giorni su Paris luttesIl primo articolo, del 2015, ci aiuta a chiarire, dopo il primo maggio a Parigi, le stronzate della “sinistra” pro-sbirri.

Certe tendenze politiche hanno la fastidiosa abitudine di seminare tesi paranoiche non appena la situazione sfugge al loro controllo.

Negli ultimi giorni, reiterando una messinscena trita e ritrita, sono stati Mélanchon e Besancenot a prendere la parola per stigmatizzare e denigrare i casseur, per accomunarli ai loro stessi nemici: gli sbirri.

Mélanchon ha pubblicato, all’indomani della morte di Rémi Fraisse, uno stato Facebook nel quale accusava i militanti che hanno affrontato direttamente la polizia alla ZAD di essere dei barboni avvinazzati e puzzolenti, di estrema destra, verosimilmente pagati dallo Stato o dai comitati pro-barriere di Testet, per “screditare” il movimento di posizione e occupazione…

 Una settimana dopo, tocca a Besancenot ritrasmettere il segnale a BMF TV. Mostra delle foto prese da una manifestazione a Nantes, dove si vedono dei poliziotti in borghese, a volto coperto. Secondo costui, sono lì per “organizzare direttamente o indirettamente delle violenze urbane”, e pretende una commissione d’inchiesta sui casseur.

Eppure che cos’è un casseur? Un individuo che compie atti di devastazione urbana. Non un modo di vestire, checché ne dicano alcuni; né tantomeno un equipaggiamento, checché ne dicano altri.

Portare un cappuccio fa di te un casseur?

Spaccare vetrine o danneggiare banche… fa di te uno sbirro? Con tutte queste accuse e queste associazioni tra poliziotti e casseur, non è che rischiamo di privare i militanti/manifestanti della scelta delle loro pratiche?

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28 aprile 2018: Upside Down Karaoke!


25 aprile, Pasqua Rossa